ELENA BELLANTONI

A cura di Nadia Stefanel

25 febbraio – 30 giugno 2023

Pura energia, forza vitale cosciente. Attraverso il suo corpo e una parola visivamente significante, Elena Bellantoni analizza le relazioni sociali di questo nostro mondo. Studia l’incontro con l’Altro in un tempo preciso, quello reale anche del lavoro, dell’essere presenti in uno spazio fisico definito. Le sue parole e i suoi gesti, dichiaratamente motivati, nascono entrambi dal passaggio fluttuante delle idee, prima, e del volere, poi, diventando esperienza e memoria di un segno.
Il suo.

Nasce così, Se ci fosse luce sarebbe bellissimo, frase ipotetica, che diventa ossimoro per eccellenza, nella scritta luminosa che si fa materia stessa nel neon e che pone una riflessione ripresa dall’ultima lettera di Aldo Moro, scritta 4 giorni prima della sua morte e recapitata alla moglie Eleonora Chiavarelli, il 5 maggio 1978.

Per noi quel Se ci fosse è affermazione tautologica, perchè in realtà la luce c’è, è presente nel valore materico del neon stesso e rimanda ad una considerazione sul potere visivo ed espressivo del linguaggio che diventa medium di un fare artistico partecipativo-relazionale.

Un sottile fil rouge di suggestioni mette in connessione alcuni passaggi storici del nostro XX secolo tra di loro con le storie personali di ognuno di noi e permette all’artista di creare un parallelismo tra uno stadio esistente e la volontà di trasformare qualcosa attraverso il gesto artistico, un segno poetico che diventa profondamente politico. Elena lavora spesso ricercando percorsi di stratificazioni mai espresse o palesate esplicitamente, ma che possono essere ritenute storie collettive, di un sentire comune che colpisce la parte interiore dell’essere umano e del suo farsi Altro. Perché la Storia, spesso e volentieri, si interseca con le storie personali di tutti noi, divenendo quasi quel personale è politico, come urlava un vecchio slogan femminista.

Le date stratificate, in questo progetto, sono primo febbraio 1975, marzo e settembre 1978, 2015 e 2022. La parola di collegamento che scava nella memoria è luce/lucciole e serve per raccontare non solo il passato, ma anche il nostro complesso presente attraverso una metafora, una traccia semantica mossa da un’urgenza intima.
Il primo febbraio 1975, Pier Paolo Pasolini, in un articolo sul “Corriere della Sera” sferrò, intenzionalmente, un durissimo attacco polemico al potere politico servendosi della metafora della “scomparsa delle lucciole”. “Nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua sono cominciate a scomparire le lucciole.” Pasolini, nel lamentarsi poeticamente, accusava la classe dirigente di aver promosso un nuovo modello di sviluppo, di aver organizzato diversamente la vita, di avere inquinato le campagne e le città, di aver preso possesso del Palazzo.
Tre anni dopo, nel settembre del 1978, venne pubblicato da Sellerio L’affaire Moro di Leonardo Sciascia; a marzo dello stesso anno le Brigate Rosse avevano rapito l’Onorevole Aldo Moro in Via Fani, a Roma, sconvolgendo l’Italia intera. Lo scrittore siciliano analizzò con acume le lettere di Moro facendo emergere lati oscuri e articolati del sistema politico, con un incipit che recuperava dalle pagine di Pasolini, divenendo memorabile: Ieri sera, uscendo per una passeggiata, ho visto nella crepa di un muro una lucciola. Non ne vedevo, in questa campagna, da almeno quarant’anni.
Quello di Sciascia è un testo difficile da categorizzare, ma che utilizza la letteratura come doveroso impegno per misurarsi con le pieghe più riposte della realtà umana e poetica, un impegno necessario a smascherare il potere e quella politica della fermezza perorata all’epoca da uno Stato alla cui integrità morale non credeva più nessuno, uno Stato cioè che da più di un secolo conviveva con le forme di criminalità organizzata e da trent’anni coltivava la corruzione e l’incompetenza. In nome dell’amore per lo Stato si svolse, nei giorni della prigionia di Moro, un melodramma, ironizzava Sciascia, finito però in tragedia, perché Aldo Moro ne fu vittima, con la sua scorta.
Nel 2015, Elena Bellantoni, a 40 anni dalla morte di Pasolini avvenuta nel 1975, anno anche di nascita dell’artista, riprese in mano la storia politica dell’Italia sovrapponendola alla sua personale. Nacque così Lucciole in cui realizzò 4 dischi 33 giri in vinile incidendoli con 40 pezzi audio legati ad avvenimenti della Storia Grande e unendoli a 40 interviste a persone comuni, raccontando così la storia “emotiva” del Belpaese tra il 1975 e il 2015.

Nel 2022 inizia la residenza di Elena presso la Dino Zoli Textile e l’elemento luce/linguaggio e corpo, simboli molto forti del suo fare, diventano suggestioni per realizzare un nuovo progetto.
Dopo una fase di osservazione e analisi dei luoghi di lavoro dell’azienda tessile, che molti dipendenti hanno abitato con il loro corpo per tanti anni, si è entrati nel vivo attraverso una metodologia inclusiva, orizzontale di workshops (relazionali) in orari di fabbrica, per entrare dentro le dinamiche produttive cercando di scardinarle attraverso la pratica artistica.
Corpi che vivono un ambiente di lavoro prolifico, che vestono un abito/habitus dal valore sociologico caratterizzato da comportamenti e da abitudini che sono presenti nel loro agire, ma anche nel loro inconscio.

Ne è nata una riflessione sul corpo che, come scriveva Michel Foucault “si muove e mi fa muovere, ma, impedendomi di uscire dal suo involucro, mi condanna a un luogo “fisso”, a uno spazio circoscritto e invalicabile, che corrisponde sempre al suo”.

E questo è stato il passaggio artistico attuato da Elena Bellantoni, che prendendo spunto dalla frase di Aldo Moro, ben augurante per un futuro che, purtroppo per lui, non ci sarebbe stato, ha voluto analizzare il sistema aziendale e poi utilizzare l’Arte come mezzo di metamorfosi dalla meccanicizzazione dei corpi nella fabbrica, dalla routine quotidiana alla possibilità di riscattarsi, cancellando o contrastando l’oggettività pesante, la materialità. Da una standardizzazione di movimenti spesso meccanici di ritmo lavorativo a gesti evocati in un’architettura artistica armoniosa. Un viaggio dentro allo stabilimento, una trasformazione da luoghi dedicati alla produttività, a luoghi onirici, in qualche misura teatrali, grazie anche alla visione di apertura della famiglia Zoli.
Elena aveva già lavorato utilizzando la manifattura come luogo di ambientazione artistica, soprattutto con On the Breadline, uno dei progetti vincitori della IV Edizione dell’Italian Council (2018), bando promosso dalla Direzione Generale Beni e Attività Culturali con il fine di promuovere l’arte contemporanea italiana nel mondo. L’itinerante progetto, sviluppatosi per circa un anno, aveva portato l’artista lungo la cosiddetta “via del pane” attraversando quattro città europee: Belgrado, Atene, Istanbul, per concludersi a Palermo. Sempre però in fabbriche dismesse. Con la residenza alla Dino Zoli Textile i luoghi di lavoro utilizzati sono invece abitati, ed è stato necessario operare in stretta sinergia e collaborazione con tutti i lavoratori-attori durante le 8 ore di turno.

Per creare uno spazio da abitare nuovo sono stati pensati e realizzati quattordici abiti di scena (appositamente ideati con tessuti della Dino Zoli Textile) in due materiali e due colori: il lino rosa (che allude al corpo) e il velluto dai toni azzurri/grigi (che allude alle tute da lavoro) da far indossare ai dipendenti e farli poi performare durante l’opera video, prodotto finale del percorso.

Gli abiti di scena sono stati tagliati e cuciti quasi come fossero opere scultoree, sagome a derviscio geometricamente perfette che hanno rivestito forme sia femminili che maschili, prodotti di “una moda che non vuole soffocare il corpo, ma dare movimento alla forma umana”, come affermava Giacomo Balla nel Manifesto del vestito futurista nel 1914. Costumi che rimandano chiaramente a suggestioni artistiche e cromatiche complesse che Elena ha saputo mescolare in modo nuovo, unendo nel vestito a trapezio della Cappadocia i toni dall’aspetto architettonico del Tondo Doni michelangiolesco con quelli poi ripresi dal Pontormo nelle sfumature cangianti senza chiaroscuro, della ben nota Deposizione. La materia stessa del tessuto assume, nelle tonalità dei rosa e degli azzurri/grigi scelti, un’inusitata leggerezza, quasi per sfidare la natura stessa, allontanandola da qualsivoglia tentativo di verisimiglianza e conferendo agli attori un aspetto ulteriormente onirico, lontano dalla quotidianità.

Ne è risultato quasi un abito collettivo, diventato modello condiviso per “vestire lo spazio aziendale”, “rivestito”, per conquistare una nuova identità di “comunità operosa”, seguendo la lezione di Adriano Olivetti, contribuendo a tessere nuove relazioni non solo lavorative e a creare un “nuovo habitus”. Un corpo nuovo pieno di risorse per la fantasia, per le proiezioni e “irrealizzazioni” immaginarie, come avrebbe detto Sartre. Rappresentato nella sua essenza da quell’abbraccio collettivo dei quattordici dipendenti vestiti con gli abiti-scultura, realizzati in due colori, ultimo frame del video diretto da Elena.
In questa ultima scena emerge tutto il lavoro processuale messo in atto dall’artista in un anno di ricerca: i laboratori collettivi e partecipati sono stati la base su cui la Bellantoni ha costruito un rapporto di fiducia con i dipendenti, iniziando a identificare nel corpo individuale e collettivo lo strumento privilegiato di interazione e investigazione dei luoghi. La ricerca visiva e performativa di Elena trova nel suo muoversi e dipanarsi nello spazio diversi riferimenti visivi: dal cinema muto degli anni Venti, e in particolare la forma dello “slapstick” (il genere comico di Buster Keaton, con i suoi personaggi alle prese con azioni impossibili), alle coreografie immaginifiche della grande Pina Bausch che l’artista ha studiato ed approfondito negli anni della formazione giovanile attraverso il teatro danza. La partitura finale, infatti, l’artista la considera, nel frammento dell’abbraccio conclusivo, un omaggio al Sacre du Printemps di Igor Stravinskij nella versione realizzata proprio nel 1975 dalla coreografa tedesca.

Infine ogni dinamica politico-poetica indagata trova proprio nel corpo (corpo altro, corpo femminile, corpo di artista) un privilegiato mezzo di sintesi. Forse l’unico ed universale strumento che possa, mediante “prove di resistenza”, divenire un luogo di risoluzione dei conflitti.
La poesia visiva, praticata da molte artiste e artisti dagli anni ’70, diventa anche in questa occasione performativa; nel gesto finale la grande scritta al neon di colore blu, Se ci fosse luce sarebbe bellissimo, accende e avvia questo corpo-scultura-viva. La poesia e la performance hanno, per l’artista, un linguaggio molto simile, lavorano su una narrazione asciutta ed efficace che fluisce per immagini. La performance ha un enunciato secco, lavora e descrive immagini chiare, esattamente come fa un certo tipo di poesia, e la parola infine diventa incarnata.

Il progetto si è poi ulteriormente concretizzato con una mostra personale di Elena Bellantoni all’interno degli spazi della Fondazione Dino Zoli. E alla fine di essa è stato installato un altro neon, in questo caso rosso, con la frase “C’era una voglia di ballare che faceva luce…” affermazione rilasciata da Francesco Guccini in riferimento al secondo dopoguerra, un momento colmo di aspettative, e rafforza il concetto di come, ancora una volta, corpo e luce siano in stretta connessione in questo percorso di residenza. La citazione si rifà alla canzone Piccola città, dedicata a Modena, teatro dell’adolescenza di Guccini, testo in cui viene nominato un locale, il Florida, in cui i modenesi all’epoca si recavano per ballare, con gioia.

E come per quegli anni, il desiderio, la voglia di riprendere le relazioni, i contatti, soprattutto dopo il periodo pandemico, è stata la forza dirompente, la luce che ha portato, concludendo la residenza, non alla produzione di merce, al profitto, al capitale, ma a un gesto artistico collettivo rigenerante per i dipendenti della Dino Zoli Textile e per tutto il sistema stesso.

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